il filo dei ricordi-racconti

mercoledì 6 aprile 2016

Mucha Alphonse a Palazzo Reale


MUCHA A PALAZZO REALE E... IL MUSEO DEL 900



E' la prima domenica del mese di marzo, oggi molti musei convenzionati, consentono l'entrata senza far pagare il biglietto.

Palazzo Reale,  non  è convenzionato, ma la visita alla mostra di Mucha, sta per terminare e non volevo perderla.
Non è la prima volta che vengo , in questo splendido palazzo, come spero e credo, non sarà l'ultima, la mostra si snoda in sale, che vengono di rado utilizzate, perché sono di piccole dimensioni, ma sono molto, molto belle, basta semplicemente alzare lo sguardo per ammirare dei soffitti spettacolari.


Il percorso della mostra di Mucha, si divide in 8 tematiche se non si tiene conto della nota introduttiva, e del fatto che la sezione di cui l'argomento riguarda delle donne in realtà è divisa in due parti.

Alphons Mucha, nasce a Ivancice, nell'Impero AustroUngarico, che oggi è la Repubblica Ceca, da una famiglia borghese e numerosa. Fin da bambino dimostra il suo talento per il disegno, facendo le caricature dei propri compagni di scuola.


Con il talento di cantante, riesce a mantenersi gli studi fino al liceo, e dopo il liceo diventa violinista, nella cattedrale di Brno.

Attraverso le conoscenze del padre, trova impiego come calligrafo e disegnatore nel tribunale della sua città, ma non è la vita a cui aspira.

A Vienna trova lavoro come disegnatore presso una ditta specializzata in decori teatrali, la ditta chiude e dopo un po' di peripezie si sposta a Mikulov, dove dipinge paesaggi, ritratti e lapidi tombali, ottiene però un lavoro di tutto rispetto, dal signore del Borgo, decora le pareti del castello e si fa conoscere dalla nobiltà del luogo. 
Nel 1878 cerca di candidarsi all'Accademia di Belle Arti di Praga, viene liquidato con la frase ormai celebre:

" Cercate un'altra professione, dove sarete più utile".

Dal 1885 al 1887, frequenta l' Accademia delle Arti di Monaco, si trasferisce a Parigi, dove incontra anni duri, si interessa alla fotografia e inizia a preparare cartelloni per la stampa.



Nel 1894, incontra per la prima volta, la musa ispiratrice della sua fortuna, Sarah Bernanrdt, che dopo anni di mancanza dal palcoscenico riprendeva a recitare, realizza per lei, il primo cartellone pubblicitario, "Gismonda ",



che piace a tutti, all'attrice, ai produttori, al pubblico, un successo che gli consentirà di lavorare per parecchi anni con l'attrice.




La fama internazionale dell'attrice, consente a Mucha, una grande notorietà, tanto che i produttori di profumi,
di Champagne,


vogliono far rappresentare, i loro prodotti, dallo stile elegante e moderno del pittore, spaziando e interessando tutti i ceti sociali, della società di quel periodo.


Dalla fine dell'800, fino a i primi anni del 900 lo stile, la sensualità l'eleganza, l'accostamento dei colori, accomunava la pubblicità dei biscotti, delle biciclette,


ed esaltava le doti di attrici.




Le opere di Mucha, nel percorso, vengono completate da complementi d'arredo in stile liberty, vasi, gioielli, sculture,



piatti decorati, sedie con spalliere e sedute ricamate seguendo lo stile di Mucha..

Gli argomenti spaziano dal teatro, alla donna, alla vita di tutti i giorni, l'arte giapponese, i gioielli e gli animali.
L'unico neo del percorso, è che alcune opere erano poste in corridoi piuttosto stretti e non si potevano gustare a pieno, vista l'affluenza e la disposizione.
L'eleganza dei disegni, i colori molto ben accostati, gli abiti velati, e delicati, lo sguardo diretto di queste donne sensuali, rivolto proprio all'osservatore, come dire,




" vedi sono qui, fidati, usa questo profumo, vieni a teatro, o sali su questa bicicletta, quando avrai finito mangerai dei buoni biscotti."

Credo sia stato l'inizio di quella che oggi si chiama pubblicità.

Un inizio elegante, e sobrio, ma anche velato, senza mai scendere nella volgarità, le tonalità dai colori tenui e delicati, tanto da affascinare il pubblico in tutta Europa.  



Nel 1896 e 1897 la galleria Bodiniére organizza una mostra per l'artista il catalogo delle sue opere ha la prefazione di Sarah Bernard, negli anni a seguire saranno molte altre le esposizioni, che ottennero un notevole successo.




Negli anni seguenti creò manifesti pubblicitari e teatrali, pannelli decorativi, copertine di riviste, calendari, cartoline, immagini di gioielli, posate, tessuti





Partecipando all'esposizione Universale del 1900, la sua fama raggiunse anche l'America. Nel 1902 pubblicava un " manuale per gli artigiani", intitolato Documents décoratifs, completo di tutti i modelli necessari per creare lo stile Liberty, a cui seguì un'altra pubblicazione, un insieme di 40 tavole con modelli di donne , di giovani soli, o in gruppo inseriti in forme geometriche intitolato Figures décoratives.


Fu accolto con toni entusiastici alla fine del 1905, nella città di New York, si stabilì in America dal 1906 al 1910, al suo ritorno si stabilì a Praga, dove curò parecchi lavori.
La Cecoslovacchia, ottiene l'indipendenza dopo la prima guerra mondiale, per la nuova nazione Mucha disegna a titolo gratuito, banconote, francobolli, e documenti del governo.





Nel 1919, le prime sette tele dell'Epopea slava, vengono esposte a Praga, ottenendo un grande riscontro, in quello stesso anno si trasferisce in America, portandosi le grandi tele alle quali si dedica in modo totale, convinto patriota, riesce ad ottennere, da un miliardario americano, un finanziamento per completare l'Epopea Slava.




Una serie di 20 opere di grandi dimensioni che lo impegnarono per circa 18 anni, che rappresentano un’epopea simbolica del popolo slavo fin dall’antichità, che viene completata e presentata a Praga il 14 luglio 1928.



Nel 1921, ritorna in Europa dove si stabilisce definitivamente.




Con l'avvento della II° guerra mondiale, le opere furono nascoste per evitare che giungessero nelle mani dei nazisti, nel 1939 Mucha venne arrestato dalla Gestapo, fu rilasciato dopo l'invasione della Germania sulla Cecoslovacchia, ma il 14 luglio moriva in circostanze misteriose.

Mucha, era un sostenitore dell'arte a beneficio di tutti, sosteneva che l'arte doveva essere ammirata da tutti goduta, per questo motivo rappresentava oggetti e alimenti di uso comune, molto spesso i suoi pannelli venivano riprodotti in serie per consentire anche alle persone comuni, con minori possibilità, di poterli acquistare.








domenica 28 febbraio 2016

Le biblioteche

LE BIBLIOTECHE




Siamo sempre soliti, a lamentarci di tutto, siamo i soliti italiani che si lamentano delle proprie istituzioni.




Questa volta però voglio parlare positivamente di una serie di servizi, che non sono spesso considerati, forse anche ignorati dalla stessa cittadinanza, non parlo di città con grandi estensioni, parlo di istituzioni che ci sono anche nei paesi....
Voglio parlare delle Biblioteche, non conosco le realtà al di fuori della mia zona, ma voglio dire che qui, nel mio paese, nei paesi limitrofi svolgono un ruolo importante, non solo come prestito di libri, ma come integrazione fra persone, come scambi culturali, in tanti modi...





 Ci sono situazioni a volte forti, che ti lasciano svuotata, che purtroppo non avresti mai pensato ti potessero accadere. Poi
come dice il detto,  "dopo il brutto tempo esce il sole", e il mio sole è nato l'8 dicembre del 2003 e si chiama Federico, il mio nipotino...
Ma il bimbo, non era mio, dovevo trovare qualcosa che mi riempisse un vuoto. Restituendo alcuni libri, che avevo preso in prestito alla biblioteca,  mi è apparso davanti agli occhi un manifesto, la biblioteca di Uggiate Trevano organizzava la visita guidata alla Mostra di Villa Olmo a Como....




 Senza pensarci molto, mi sono iscritta, e....., mi si è aperto un mondo, opere bellissime che non conoscevo, una guida qualificata che mi spiegava, e non solo a me, quello che stavamo osservando.
La stessa Villa Olmo è un'opera d'arte.




 Sono rientrata a casa la sera, più leggera, arricchita di qualcosa, ho realizzato che fuori c'era tutto un mondo che non conoscevo. 




Ho iniziato ad iscrivermi, nelle biblioteche dei paesi limitrofi al mio, perchè la mia storia personale, mi faceva sentire a disagio, solo ultimamente sono riuscita a vincere la mia paura,  ho usufruito di iniziative che sono state promosse dal mio comune,  molto ben organizzate....




Sono stata a parecchie mostre, a Milano, Genova, Torino, Padova, sono stata a qualche spettacolo teatrale, Massimo Ranieri, con il suo spettacolo " Canto perchè non so nuotare", in quell'occasione avevo coinvolto una decina di amiche mie, e ci è piaciuto veramente tanto.




Ho assistito a teatro ad una decina di musical, in teatri diversi di Milano, sono stata all'Arena di Verona, per tre volte, ho ancora negli occhi le scenografie della Carmen, e nelle orecchie le bellissime voci di tutti gli artisti delle opere che ho visto, mentre assistevo al Nabucco, suscitando la perplessità di chi mi aveva accompagnato, al "Va Pensiero" ho pianto....



Personalmente, devo dire grazie, un grande Grazie a chi promuove, mette a disposizione, organizza, non solo acquistando i biglietti, fornendo guide preparate, e molto spesso anche un pulman per il trasporto, o nel caso non fosse possibile, le indicazioni migliori per raggiungere il luogo di destinazione.
Per me è sopratutto un Grazie enorme perchè oltre che a farmi uscire da un punto morto, fatto di delusioni e pensieri tristi, è stato anche una spinta ad informarmi, a voler capire, a non seguire tanto per andare, ho sentito spiegazioni, riflessioni, compreso strategie e modus operandi di alcune situazioni o stili di vita che nel mio modo di ragionare non erano state contemplate...



Visitare il nostro Teatro Sociale, a Como, che nulla ha da invidiare ad altri teatri, in occasione di un concerto Gospel, per me è un modo per ritrovarmi con amici, che non sempre posso frequentare, e allora ci si tiene in contatto, ed è ormai è diventata una tradizione per noi,  partecipare al concerto di Natale, che ci consente di scambiarci anche gli auguri, naturalmente le prenotazioni vengono fatte in biblioteca.



Prenotare per una qualsiasi iniziativa, è un impegno, che faccio sopratutto con me stessa, per non consentire al logorio della quotidianità, di prendere il sopravvento, non posso pensare di partecipare a tutte le iniziative, ma quanto mi piacerebbe.
Appena posso, porto con me anche il mio nipotino, le ultime nostre visite insieme, sono state il Museo Egizio di Torino, 
la Vigna di Leonardo e la casa Antellani a Milano,




 e il " Binario 21" a Milano.




Mentre ieri sera, mi sono molto gustata il musical " Tutti insieme appassionatamente" al Teatro nuovo di Milano.









Si sente spesso dire, ma in questi paesi non c'è nulla, non è vero, siamo noi che non siamo informati, le biblioteche, e chi collabora con loro, per esempio Cultura in tour,








 sono molto bene organizzate, promuovono tante iniziative, prestiti di libri, corsi di informatica, di lingue straniere, non solo mostre e visite guidate, spettacoli in occasioni di giornate speciali, confronti tematici riguardo a temi e problematiche sociali, ma anche momenti lievi, come spettacoli teatrali, musicali e di cabaret.

Grazie Grazie



lunedì 22 febbraio 2016

La Visita al BINARIO 21

LA VISITA AL BINARIO 21

Ho già scritto del binario 21, ossia del memoriale della Shoa di Milano, di quanti sforzi ci sono voluti, di quanto impegno, personale,  economico,  per raggiungere l'obbiettivo finale, che non è altro,  che il bisogno di raccontare la  verità a  chi, per fortuna  non ha vissuto, il disastro di una guerra voluta da menti folli, e sopratutto per evitare che non accada di nuovo.
Mi spinge il voler sapere, il ricordo di persone a me care, che questa follia l'hanno vissuta, subita nella loro gioventù.
 Informarsi sul Memoriale della Shoa, è stata una buona cosa, ma vederlo è tutta un'altra storia.
Quando Margherita di Culturaintour, mi ha informato della visita guidata, ho prenotato subito per me, poi ho detto al mio nipotino Federico, il 21 febbraio vieni con me,  VOLEVO lo vedesse, solitamente chiedo, se vuol venire con me, questa volta non ho chiesto, ho voluto portarlo.


stazione di Milano 



Non è sempre facile entrare in questi luoghi, 
ci accoglie la parola INDIFFERENZA, voluta con forza, da Liliana Segre.


Liliana Segre,è una signora che ha voluto intensamente che questo luogo diventasse il simbolo, il Memoriale della Shoa.... Sopravvissuta ai campi di sterminio, ha raccontato più volte di quanto male le abbia fatto l'indifferenza delle persone, che prima delle leggi razziali erano vicini di casa, amici di famiglia, il droghiere di fiducia, poi in un attimo lei e i suo padre, erano  diventate persone  invisibili e indesiderate agli occhi di chi abitava nel loro stesso palazzo, ai conoscenti che incontrava per strada che fingevano di non vederli.....




Milano, quella Milano, che ha consentito che questo delirio accadesse, ora col Memoriale cerca di riscattarsi, ben consapevole di aver sbagliato. Non è facile ammettere di essere stati complici, ma è un buon segno la volontà di rimediare,  tenendo viva la memoria di quel che è accaduto.




Ha contato molto, anche l'esposizione della signora che ci ha fatto da guida, in modo pacato, rispettosa del luogo, coinvolta emotivamente, ha coinvolto i bambini presenti al gruppo, facendo notare anche a noi adulti quanto fosse studiata, in modo organizzato la deportazione di persone considerate pezzi, ma sopratutto di quanto fosse subdola la violenza psicologica di annientamento di tante anime.




Ci ha spiegato che gli ebrei sono un popolo, non una razza, che intellettuali, giornalisti dell'epoca erano conniventi con le leggi razziali.



 Gli ebrei, sono un popolo, che nel corso dei secoli, si è abituato a subire rivolte, ma non era preparato, o meglio non aveva compreso quanto fossero in pericolo, con le emanazioni di tali leggi, quanto fosse grave, per la comunità considerare gli ebrei una razza. Gli ebrei sono cittadini di tutto il mondo, se ne trovano negli stati Europei, nelle Americhe, in Russia, e hanno intrapreso usi e costumi delle zone in cui avevano e ancora vivono, per cui l'errore più grande è pensare che gli ebrei siano tutti uguali, sono diversi per usi e costumi.Alcuni di loro non praticavano nemmeno la religione ebraica, altri ancora si erano convertiti al cattolicesimo, avevano lottato come italiani nella prima guerra mondiale, ma per i fascisti prima e i nazisti poi, non contava nulla. Era sufficiente avere un solo nonno, su quattro, di origine ebraica, che nel tuo sangue scorreva sangue ebreo e diventavi indesiderato, non era una questione religiosa, era una questione di sangue, intellettualmente diffusa, come dimostrano i cartelli esposti.





La pratica svolta, serviva ad annullare le certezze, togliendo loro per prima cosa  il lavoro, i beni personali, la scuola ai bambini, la dignità che spetta a chiunque,  poi l'annientamento personale, dove diventavano invisibili agli occhi di tutti, e infine la totale perdita di tutto, dei propri abiti, dei proprio nome di battesimo,sostituito con  un numero di matricola, un numero freddo e impersonale,  fino a strappare, dividere gli affetti, separando famiglie intere....
Una immagine deprimente di 6 MILIONI di Ebrei, nell’ Europa Centrale, privati di protezione e di opportunità economiche, che lentamente morivano di stenti, violenza e perfidia.





I bambini presenti hanno guardato i sassolini,  ogni pietra rappresenta una persona, nella religione ebraica, non si usano fiori sulle tombe ma sassolini e ci è stata data anche la spiegazione cosa  di cui anche io non ero a conoscenza.


Al tempo in cui Mosè, liberò il popolo dalla schiavitù d'Egitto, rimasero per 40 anni nel deserto, e le persone che in quel tempo morivano, venivano seppellite nel deserto, gli animali selvatici, trovando un terreno sabbioso, tendevano a dissotterrare i defunti, così le tombe venivano coperte con sassi, nel deserto non c'erano fiori, nacque la tradizione di mettere un sasso nella tomba del defunto, più sassi ci sono più quella persona era importante e viene ricordata, il sasso è Dio, non si distrugge, sotto il sasso è anche usanza porre una preghiera o un pensiero per il defunto.
Non
si usa il mazzo di fiori,anche quando c'è un lutto è sempre meglio portare frutta ai parenti, e non fiori per chi pratica la religione ebraica.



Continuando il percorso attraverso le spiegazioni, il binario, il traslatore che spostava i vagoni,








l'elevatore che sollevava le carrozze stipate di persone, molti ebrei giungevano da San Vittore, dove erano stati rinchiusi, insieme agli oppositori politici.






Liliana Segre racconta di aver avuto più solidarietà dai carcerati di San Vittore, che dalla popolazione, come era possibile che in carcere sapessero quale fine avrebbero fatto, mentre la popolazione civile non ne fosse al corrente?




Era meglio, non vedere non sentire, non esporsi.
Salire sui vagoni mi ha fatto sentire una sensazione di freddo, ma al tempo stesso mi mancava l'aria, come immaginare un viaggio di una settimana stipati come bestie, dentro un vagone.... e ritorno con la mente a mio papà, e a quei demoni che non lo hanno mai lasciato. Un cartello esposto dice vietato trasportare persone, infatti questo il luogo era destinato a inviare vagoni di merci, ma dimostra che per i nazisti gli ebrei non erano persone.





Il pavimento che segue le rotaie del binario, attraverso delle targhe  mostra  l'elenco dei treni partiti dalla stazione di Milano,







 sul muro compaiono  i nomi di tutti i deportati, chi  non è tornato con una scritta bianca, con la scritta in rosso ci sono le 27 persone che sono tornate, le scritte vengono incontro ai visitatori, questo gesto è difficile da interpretare , ma io l'ho vissuto così:

non ci conosciamo, ma io sono qui, ti mando il mio nome, non mi dimenticare, perchè se dimentichi me o gli altri, dimentichi chi sei....e cosa siamo stati.






Con Federico, poi ci siamo intrattenuti, ancora molto all'interno del memoriale, abbiamo visitato le stanze delle testimonianze, dove i sopravvissuti hanno raccontato le loro esperienze vissute,  importante è stata la testimonianza di Shomo Venezia, che fu assegnato al SonderKommando, di uno dei più grandi forni crematori di Birkenau, insieme ad altri prigionieri fu costretto per mesi a vivere sopra i crematori, per occuparsi delle operazioni di distruzione dei cadaveri delle vittime che i nazisti uccidevano mediante gassazione.
 I membri dei 'Sonderkommandos' venivano periodicamente uccisi dalle SS affinchè non potessero testimoniare quello che avevano visto.
Una violenza ancora più subdola, perchè creando delle squadre di prigionieri addetti alle camere a gas, cercavano di scaricare le colpe su coloro che erano vittime, facendoli diventare carnefici.   
 Abbiamo letto i manifesti, e ho sentito il mio piccolo dire: " Nonna perchè?
"Dovrebbero venire qui i politici del mondo, per capire che quando fanno le leggi possono fare del male. Noi adesso siamo razzisti nei confronti di chi arriva qui, perchè abbiamo paura di perdere le nostre cose... invece i carcerati che non avevano più niente da perdere, hanno donato una mela o un arancio, ecco perchè si fa violenza per avere ricchezza, così si diventa potenti".
Chiudo con le parole del mio nipotino, la follia del potere a scapito degli altri.....


Margherita di Culturaintour di Cadorago sapeva quanto tenessi a questa visita, la ringrazio di cuore per averla organizzata



venerdì 12 febbraio 2016

Trieste quando erano gli itliani a fare pulizia Etnica

Questo articolo l'ho preso nel web, per non dimenticare tutte le verità, la violenza è violenza, le dittature di qualsivoglia bandiera e colore, esercitano ed esercitavano solo imposizioni, la violenza primaria è la negaazione della libertà.



Trieste, quando erano gli italiani a fare pulizia etnica

Dal 2004 il 10 febbraio è il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto: per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva. Perché sorvoliamo sulle nostre violenze sul ...

Dal 2004 il 10 febbraio è diventato il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto, per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva, e si ricorda quel che si vuol ricordare.
Il susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato l’attuale confine orientale italiano ne è un esempio palese: in quell’area è accaduto di tutto e di più. Per esempio le pulizie etniche sono state varie, e ce n’è una, così imbarazzante per l’Italia che quasi nessuno si è preso la briga di studiarla.
La città di Trieste e tutta la regione del Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole “italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di “Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario Monti).
Possiamo dare un’occhiata a quanto è accaduto da quelle parti tra il 1914 e il 1919 grazie a un libro di Piero Purini, Metamorfosi etniche, (Kappa Vu). Trieste nel 1913 (anno del suo massimo sviluppo nell’era austroungarica; il porto riprenderà solo nel Sessanta gli stessi livelli di traffico) aveva circa 240 mila abitanti, ovvero più o meno quanti ne ha oggi.
Dal punto di vista etnico la città era molto, ma molto diversa da come si presenta attualmente: agli italiani di cittadinanza austriaca si affiancavano gli immigrati dal regno d’Italia (Trieste era molto più ricca delle vicine regioni italiane e ci si emigrava come si faceva in Svizzera o in Francia), agli sloveni autoctoni si sommavano quelli provenienti dalla Carniola, e poi ancora tedeschi, croati, una forte comunità ebraica (alla vigilia delle leggi razziali Trieste è in termini relativi la città più ebraica d’Italia), piccoli ma vivaci nuclei greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi turchi. Escono giornali in quattro lingue (italiano, sloveno, tedesco e croato) e fino al 1910 vi si stampa pure un settimanale in greco. Per i triestini (e i trentini) la guerra scoppia nel 1914 e i soldati di leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani etnici vengono mandati prevalentemente sui Carpazi). Ma quando è chiaro che ci sarà la guerra con l’Italia, i sudditi di Vittorio Emanuele III fanno fagotto. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate le linee ferroviarie con l’Italia, se ne vanno circa in 35 mila, ma ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in età di leva). A questo punto gli italiani rimasti a Trieste sono solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi 1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti (tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).
I coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie potrebbero invece aggirarsi sui 25 mila, ma un calcolo preciso non è mai stato fatto a causa del variare della popolazione cittadina. Assieme a quelli che scappano per combattere dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti (Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una fortissima componente rossa), pacifisti che, dopo la guerra, gli italiani cercheranno puntigliosamente di non far tornare. Gli eventi bellici portano a un impressionante numero di profughi, Gorizia, per esempio passa da 28 mila ai 3.500 abitanti di quando vi entrano gli italiani, nell’agosto 1916, e sarà del tutto sgomberata dopo Caporetto. Trieste, che non è zona di guerra, perde in tutto circa 90 mila abitanti, arrivando ad averne, nel 1917, 150-160 mila.
Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come prima. Nel 1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli” (ovvero gli italiani che prima della guerra erano sudditi del regno e non dell’impero), ma assieme a loro immigrano anche molti italiani attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione soprattutto nel pubblico impiego, occupando i posti lasciati liberi dal personale mandato via per motivi etnici.
L’accesa attività irredentista di una parte (assolutamente minoritaria) della comunità italiana, aveva fatto sì che gli italiani fossero considerati infidi agli occhi della autorità austriache, con punte di vero e proprio disprezzo da parte dell’imperatrice Elisabetta o dell’erede al trono Francesco Ferdinando. Per questo nella pubblica amministrazione si cercava di assumere personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu (fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria, porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Il caso dei ferrovieri è il più eclatante: erano in totale 1926: 1694 slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra licenziati e trasferiti non si è più nemmeno in grado di far funzionare i treni e bisogna richiamare in fretta e furia personale dal resto d’Italia. «L’espulsione dei ferrovieri può essere considerata il primo momento di “bonifica etnica” ai danni della popolazione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata durante il fascismo», scrive Purini.
Il primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi, circa 12 mila, terzi per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”, arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire nelle scuola l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento. C’è da dire che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni; che avranno invece via libera da quando Trieste smetterà di essere zona di occupazione militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia, nel 1920. Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi, vengono chiusi il quotidiano “Triester Zeitung” nonché chiese, scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato dall’Italia.
Secondo voci non verificabili, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone (tante quante ne arrivano), ma è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.
Se ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.
Si colpiscono con l’internamento le personalità più in vista: sacerdoti (colonna di tutti i nazionalismi), insegnanti, professionisti; in tutto sono 500 persone, non moltissime, ma costituiscono un esempio e determinano un decisivo incentivo alla partenza per gli appartenenti al medesimo gruppo etnico.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila profughi provenienti dal Litorale.
Di pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del territorio: Roma manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. Tanto per fare un raffronto, Vienna teneva nella medesima area 25 mila persone in divisa, ma 17 mila erano in servizio a Pola, la principale base della Marina da guerra austroungarica. I 40 mila neo arrivati dall’Italia di cui si è parlato sopra, si sommano ai 47 mila militari. L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero (l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto marginale del regno d’Italia.
Il fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di italianizzazione: intere parti di Trieste saranno demolite e ricostruite in stile littorio, si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste. Italianizzazione che avviene, ovviamente, all’italiana: se eri ricco e potente, nessuno ti toccava. Gli armatori Cosulich si tengono il loro bel cognome lussignano (anche se italianizzato nella grafia, altrimenti sarebbe Kozulić).
Le partenze di sloveni e croati etnici vengono incentivate dalle sistematiche violenze squadriste, culminate nell’incendio dell’hotel Balkan, sede delle istituzioni culturali slovene triestine, il 13 luglio 1920. Il censimento del 1921 fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206, gli italiani da 354.908 a 467.308.
Con l’ascesa del fascismo la violenza si intensifica e si parla apertamente di «bonifica etnica», termine che rispecchia nella forma e nella sostanza la «pulizia etnica» di anni più recenti. E proprio quando si parla della pulizia etnica attuata da altri, non sarebbe male guardare anche a quel che è successo in casa propria.