il filo dei ricordi-racconti

lunedì 22 febbraio 2016

La Visita al BINARIO 21

LA VISITA AL BINARIO 21

Ho già scritto del binario 21, ossia del memoriale della Shoa di Milano, di quanti sforzi ci sono voluti, di quanto impegno, personale,  economico,  per raggiungere l'obbiettivo finale, che non è altro,  che il bisogno di raccontare la  verità a  chi, per fortuna  non ha vissuto, il disastro di una guerra voluta da menti folli, e sopratutto per evitare che non accada di nuovo.
Mi spinge il voler sapere, il ricordo di persone a me care, che questa follia l'hanno vissuta, subita nella loro gioventù.
 Informarsi sul Memoriale della Shoa, è stata una buona cosa, ma vederlo è tutta un'altra storia.
Quando Margherita di Culturaintour, mi ha informato della visita guidata, ho prenotato subito per me, poi ho detto al mio nipotino Federico, il 21 febbraio vieni con me,  VOLEVO lo vedesse, solitamente chiedo, se vuol venire con me, questa volta non ho chiesto, ho voluto portarlo.


stazione di Milano 



Non è sempre facile entrare in questi luoghi, 
ci accoglie la parola INDIFFERENZA, voluta con forza, da Liliana Segre.


Liliana Segre,è una signora che ha voluto intensamente che questo luogo diventasse il simbolo, il Memoriale della Shoa.... Sopravvissuta ai campi di sterminio, ha raccontato più volte di quanto male le abbia fatto l'indifferenza delle persone, che prima delle leggi razziali erano vicini di casa, amici di famiglia, il droghiere di fiducia, poi in un attimo lei e i suo padre, erano  diventate persone  invisibili e indesiderate agli occhi di chi abitava nel loro stesso palazzo, ai conoscenti che incontrava per strada che fingevano di non vederli.....




Milano, quella Milano, che ha consentito che questo delirio accadesse, ora col Memoriale cerca di riscattarsi, ben consapevole di aver sbagliato. Non è facile ammettere di essere stati complici, ma è un buon segno la volontà di rimediare,  tenendo viva la memoria di quel che è accaduto.




Ha contato molto, anche l'esposizione della signora che ci ha fatto da guida, in modo pacato, rispettosa del luogo, coinvolta emotivamente, ha coinvolto i bambini presenti al gruppo, facendo notare anche a noi adulti quanto fosse studiata, in modo organizzato la deportazione di persone considerate pezzi, ma sopratutto di quanto fosse subdola la violenza psicologica di annientamento di tante anime.




Ci ha spiegato che gli ebrei sono un popolo, non una razza, che intellettuali, giornalisti dell'epoca erano conniventi con le leggi razziali.



 Gli ebrei, sono un popolo, che nel corso dei secoli, si è abituato a subire rivolte, ma non era preparato, o meglio non aveva compreso quanto fossero in pericolo, con le emanazioni di tali leggi, quanto fosse grave, per la comunità considerare gli ebrei una razza. Gli ebrei sono cittadini di tutto il mondo, se ne trovano negli stati Europei, nelle Americhe, in Russia, e hanno intrapreso usi e costumi delle zone in cui avevano e ancora vivono, per cui l'errore più grande è pensare che gli ebrei siano tutti uguali, sono diversi per usi e costumi.Alcuni di loro non praticavano nemmeno la religione ebraica, altri ancora si erano convertiti al cattolicesimo, avevano lottato come italiani nella prima guerra mondiale, ma per i fascisti prima e i nazisti poi, non contava nulla. Era sufficiente avere un solo nonno, su quattro, di origine ebraica, che nel tuo sangue scorreva sangue ebreo e diventavi indesiderato, non era una questione religiosa, era una questione di sangue, intellettualmente diffusa, come dimostrano i cartelli esposti.





La pratica svolta, serviva ad annullare le certezze, togliendo loro per prima cosa  il lavoro, i beni personali, la scuola ai bambini, la dignità che spetta a chiunque,  poi l'annientamento personale, dove diventavano invisibili agli occhi di tutti, e infine la totale perdita di tutto, dei propri abiti, dei proprio nome di battesimo,sostituito con  un numero di matricola, un numero freddo e impersonale,  fino a strappare, dividere gli affetti, separando famiglie intere....
Una immagine deprimente di 6 MILIONI di Ebrei, nell’ Europa Centrale, privati di protezione e di opportunità economiche, che lentamente morivano di stenti, violenza e perfidia.





I bambini presenti hanno guardato i sassolini,  ogni pietra rappresenta una persona, nella religione ebraica, non si usano fiori sulle tombe ma sassolini e ci è stata data anche la spiegazione cosa  di cui anche io non ero a conoscenza.


Al tempo in cui Mosè, liberò il popolo dalla schiavitù d'Egitto, rimasero per 40 anni nel deserto, e le persone che in quel tempo morivano, venivano seppellite nel deserto, gli animali selvatici, trovando un terreno sabbioso, tendevano a dissotterrare i defunti, così le tombe venivano coperte con sassi, nel deserto non c'erano fiori, nacque la tradizione di mettere un sasso nella tomba del defunto, più sassi ci sono più quella persona era importante e viene ricordata, il sasso è Dio, non si distrugge, sotto il sasso è anche usanza porre una preghiera o un pensiero per il defunto.
Non
si usa il mazzo di fiori,anche quando c'è un lutto è sempre meglio portare frutta ai parenti, e non fiori per chi pratica la religione ebraica.



Continuando il percorso attraverso le spiegazioni, il binario, il traslatore che spostava i vagoni,








l'elevatore che sollevava le carrozze stipate di persone, molti ebrei giungevano da San Vittore, dove erano stati rinchiusi, insieme agli oppositori politici.






Liliana Segre racconta di aver avuto più solidarietà dai carcerati di San Vittore, che dalla popolazione, come era possibile che in carcere sapessero quale fine avrebbero fatto, mentre la popolazione civile non ne fosse al corrente?




Era meglio, non vedere non sentire, non esporsi.
Salire sui vagoni mi ha fatto sentire una sensazione di freddo, ma al tempo stesso mi mancava l'aria, come immaginare un viaggio di una settimana stipati come bestie, dentro un vagone.... e ritorno con la mente a mio papà, e a quei demoni che non lo hanno mai lasciato. Un cartello esposto dice vietato trasportare persone, infatti questo il luogo era destinato a inviare vagoni di merci, ma dimostra che per i nazisti gli ebrei non erano persone.





Il pavimento che segue le rotaie del binario, attraverso delle targhe  mostra  l'elenco dei treni partiti dalla stazione di Milano,







 sul muro compaiono  i nomi di tutti i deportati, chi  non è tornato con una scritta bianca, con la scritta in rosso ci sono le 27 persone che sono tornate, le scritte vengono incontro ai visitatori, questo gesto è difficile da interpretare , ma io l'ho vissuto così:

non ci conosciamo, ma io sono qui, ti mando il mio nome, non mi dimenticare, perchè se dimentichi me o gli altri, dimentichi chi sei....e cosa siamo stati.






Con Federico, poi ci siamo intrattenuti, ancora molto all'interno del memoriale, abbiamo visitato le stanze delle testimonianze, dove i sopravvissuti hanno raccontato le loro esperienze vissute,  importante è stata la testimonianza di Shomo Venezia, che fu assegnato al SonderKommando, di uno dei più grandi forni crematori di Birkenau, insieme ad altri prigionieri fu costretto per mesi a vivere sopra i crematori, per occuparsi delle operazioni di distruzione dei cadaveri delle vittime che i nazisti uccidevano mediante gassazione.
 I membri dei 'Sonderkommandos' venivano periodicamente uccisi dalle SS affinchè non potessero testimoniare quello che avevano visto.
Una violenza ancora più subdola, perchè creando delle squadre di prigionieri addetti alle camere a gas, cercavano di scaricare le colpe su coloro che erano vittime, facendoli diventare carnefici.   
 Abbiamo letto i manifesti, e ho sentito il mio piccolo dire: " Nonna perchè?
"Dovrebbero venire qui i politici del mondo, per capire che quando fanno le leggi possono fare del male. Noi adesso siamo razzisti nei confronti di chi arriva qui, perchè abbiamo paura di perdere le nostre cose... invece i carcerati che non avevano più niente da perdere, hanno donato una mela o un arancio, ecco perchè si fa violenza per avere ricchezza, così si diventa potenti".
Chiudo con le parole del mio nipotino, la follia del potere a scapito degli altri.....


Margherita di Culturaintour di Cadorago sapeva quanto tenessi a questa visita, la ringrazio di cuore per averla organizzata



venerdì 12 febbraio 2016

Trieste quando erano gli itliani a fare pulizia Etnica

Questo articolo l'ho preso nel web, per non dimenticare tutte le verità, la violenza è violenza, le dittature di qualsivoglia bandiera e colore, esercitano ed esercitavano solo imposizioni, la violenza primaria è la negaazione della libertà.



Trieste, quando erano gli italiani a fare pulizia etnica

Dal 2004 il 10 febbraio è il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto: per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva. Perché sorvoliamo sulle nostre violenze sul ...

Dal 2004 il 10 febbraio è diventato il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto, per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è selettiva, e si ricorda quel che si vuol ricordare.
Il susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato l’attuale confine orientale italiano ne è un esempio palese: in quell’area è accaduto di tutto e di più. Per esempio le pulizie etniche sono state varie, e ce n’è una, così imbarazzante per l’Italia che quasi nessuno si è preso la briga di studiarla.
La città di Trieste e tutta la regione del Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole “italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di “Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario Monti).
Possiamo dare un’occhiata a quanto è accaduto da quelle parti tra il 1914 e il 1919 grazie a un libro di Piero Purini, Metamorfosi etniche, (Kappa Vu). Trieste nel 1913 (anno del suo massimo sviluppo nell’era austroungarica; il porto riprenderà solo nel Sessanta gli stessi livelli di traffico) aveva circa 240 mila abitanti, ovvero più o meno quanti ne ha oggi.
Dal punto di vista etnico la città era molto, ma molto diversa da come si presenta attualmente: agli italiani di cittadinanza austriaca si affiancavano gli immigrati dal regno d’Italia (Trieste era molto più ricca delle vicine regioni italiane e ci si emigrava come si faceva in Svizzera o in Francia), agli sloveni autoctoni si sommavano quelli provenienti dalla Carniola, e poi ancora tedeschi, croati, una forte comunità ebraica (alla vigilia delle leggi razziali Trieste è in termini relativi la città più ebraica d’Italia), piccoli ma vivaci nuclei greci, serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi turchi. Escono giornali in quattro lingue (italiano, sloveno, tedesco e croato) e fino al 1910 vi si stampa pure un settimanale in greco. Per i triestini (e i trentini) la guerra scoppia nel 1914 e i soldati di leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani etnici vengono mandati prevalentemente sui Carpazi). Ma quando è chiaro che ci sarà la guerra con l’Italia, i sudditi di Vittorio Emanuele III fanno fagotto. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate le linee ferroviarie con l’Italia, se ne vanno circa in 35 mila, ma ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in età di leva). A questo punto gli italiani rimasti a Trieste sono solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi 1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti (tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).
I coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie potrebbero invece aggirarsi sui 25 mila, ma un calcolo preciso non è mai stato fatto a causa del variare della popolazione cittadina. Assieme a quelli che scappano per combattere dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti (Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una fortissima componente rossa), pacifisti che, dopo la guerra, gli italiani cercheranno puntigliosamente di non far tornare. Gli eventi bellici portano a un impressionante numero di profughi, Gorizia, per esempio passa da 28 mila ai 3.500 abitanti di quando vi entrano gli italiani, nell’agosto 1916, e sarà del tutto sgomberata dopo Caporetto. Trieste, che non è zona di guerra, perde in tutto circa 90 mila abitanti, arrivando ad averne, nel 1917, 150-160 mila.
Dopo l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come prima. Nel 1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli” (ovvero gli italiani che prima della guerra erano sudditi del regno e non dell’impero), ma assieme a loro immigrano anche molti italiani attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione soprattutto nel pubblico impiego, occupando i posti lasciati liberi dal personale mandato via per motivi etnici.
L’accesa attività irredentista di una parte (assolutamente minoritaria) della comunità italiana, aveva fatto sì che gli italiani fossero considerati infidi agli occhi della autorità austriache, con punte di vero e proprio disprezzo da parte dell’imperatrice Elisabetta o dell’erede al trono Francesco Ferdinando. Per questo nella pubblica amministrazione si cercava di assumere personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu (fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria, porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Il caso dei ferrovieri è il più eclatante: erano in totale 1926: 1694 slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra licenziati e trasferiti non si è più nemmeno in grado di far funzionare i treni e bisogna richiamare in fretta e furia personale dal resto d’Italia. «L’espulsione dei ferrovieri può essere considerata il primo momento di “bonifica etnica” ai danni della popolazione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata durante il fascismo», scrive Purini.
Il primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi, circa 12 mila, terzi per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”, arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire nelle scuola l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento. C’è da dire che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni; che avranno invece via libera da quando Trieste smetterà di essere zona di occupazione militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia, nel 1920. Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi, vengono chiusi il quotidiano “Triester Zeitung” nonché chiese, scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato dall’Italia.
Secondo voci non verificabili, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone (tante quante ne arrivano), ma è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.
Se ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.
Si colpiscono con l’internamento le personalità più in vista: sacerdoti (colonna di tutti i nazionalismi), insegnanti, professionisti; in tutto sono 500 persone, non moltissime, ma costituiscono un esempio e determinano un decisivo incentivo alla partenza per gli appartenenti al medesimo gruppo etnico.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila profughi provenienti dal Litorale.
Di pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del territorio: Roma manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. Tanto per fare un raffronto, Vienna teneva nella medesima area 25 mila persone in divisa, ma 17 mila erano in servizio a Pola, la principale base della Marina da guerra austroungarica. I 40 mila neo arrivati dall’Italia di cui si è parlato sopra, si sommano ai 47 mila militari. L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero (l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto marginale del regno d’Italia.
Il fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di italianizzazione: intere parti di Trieste saranno demolite e ricostruite in stile littorio, si procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a Trieste. Italianizzazione che avviene, ovviamente, all’italiana: se eri ricco e potente, nessuno ti toccava. Gli armatori Cosulich si tengono il loro bel cognome lussignano (anche se italianizzato nella grafia, altrimenti sarebbe Kozulić).
Le partenze di sloveni e croati etnici vengono incentivate dalle sistematiche violenze squadriste, culminate nell’incendio dell’hotel Balkan, sede delle istituzioni culturali slovene triestine, il 13 luglio 1920. Il censimento del 1921 fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206, gli italiani da 354.908 a 467.308.
Con l’ascesa del fascismo la violenza si intensifica e si parla apertamente di «bonifica etnica», termine che rispecchia nella forma e nella sostanza la «pulizia etnica» di anni più recenti. E proprio quando si parla della pulizia etnica attuata da altri, non sarebbe male guardare anche a quel che è successo in casa propria.




giovedì 11 febbraio 2016


«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale "Giorno del ricordo" al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004 n. 92)



Alla fine della prima guerra mondiale, con la fine dell'impero Asburgico, vennero consegnati allo stato italiano, la Venezia Giulia e Zara, nel 1924 si aggiunse la città di Fiume.
Le popolazioni di queste zone,  sulle zone costiere erano  di nazionalità italiana, mentre nelle zone interne,   erano sloveni e croati, un insieme di etnie,  che lo stato italiano non era in grado di tutelare.
 Le squadre di fascisti,  che dal 1919 si erano formate, con il passare degli anni,  avevano preso come bersaglio preferito le popolazione slovene e croate, e naturalmente, come in tutta italia, gli antifascisti.
Gli squadristi nel 1920, incendiarono a Triestel 'Hotel Balkan,  la sede del centro culturale, dove le organizzazioni slovene della città si ritrovavano. Mussolini,  in un suo proclama: definì provvidenziale l'incendio del Balkan, questo fu il consenso al dilagare della violenza fascista.
Nel 1922 fu proibita anche la messa in lingua slovena, anche se i parroci cercavano di resistere, ogni possibiltà veniva meno,  perchè si era creato un insieme di comportamenti che hanno sottoposto le popolazioni di etnia croata e slovena, ad una ferocia inaudita da parte degli squadristi fascisti, chiusero ogni circolo, che permettesse loro di ritrovarsi, gli cambiarono i cognomi, venne imposta la lingua italiana, che per i piccoli bambini si tramutò in un difficile percorso..
Ormai, era stata decretata la fine della popolazione croata e slovena.
Nel 1941, con l'invasione nazista, la Jugoslavia venne annientata e divisa. La Slovenia settentrionale, viene assegnata alla Germania nazista, la parte meridionale viene denominata, "Provincia di Lubiana" , l'Italia si ingrandisce, acquisendo Fiume e Zara, e una parte della Dalmazia indebolendo di fatto la Croazia, che diventa uno stato indipendente nelle mani di un fanatico nazifascista.

Fonte Web:
Il regime di occupazione della Jugoslavia da parte della Germania,  e dei suoi alleati fu spietato. Migliaia di persone vennero uccise e centinaia di villaggi incendiati. 
La resistenza all’occupazione si sviluppò sin dall’estate 1941, cominciando dal Montenegro ed estendendosi ben presto a Serbia, Croazia e Slovenia.
Nell’ottobre del ’41 si ebbero le prime condanne a morte. Nei 29 mesi di occupazione italiana, nella sola provincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civili e altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, trovarono la morte nei campi di concentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Croazia.



Il 25 luglio 1943,  cade il fascismo in italia e con l'armistizio dell' 8 settembre e l'annessione al terzo Reich,  permette alla Germania di occupare velocemente la Dalmazia, la Provincia di Lubiana e il Venezia Giulia.
Dal mese di settembre 1943 al 1945, i nazisti, privano in modo brutale la sovranità all'Italia, Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana, fanno parte della Germania nazista, inizia per queste popolazioni un ennesimo periodo di smembramento di identità, ed un proseguirsi di angherie. In seguito vennero aggiunte anche le province di Trento, Bolzano e Belluno.



Nel 1929,   in Istria si formarono i primi gruppi della Resistenza, contro il fascismo, nell’estate-autunno 1941 iniziò in Jugoslavia la Resistenza contro l’occupazione italo-tedesca.
Nella Venezia Giulia, la Resistenza ebbe inizio con netto anticipo rispetto al resto d’Italia.
Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, cominciò ad arrivare alla città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo, era già presente e si opponeva ai nazifascisti. Intanto in tutta italia si organizzava la Resistenza.

Fonte Web:
A Udine, tra il febbraio e l’aprile del 1945, avvenne la fucilazione di 52 partigiani. Questi eccidi vennero compiuti dai nazisti con la collaborazione attiva dei fascisti di Salò.
Il Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), della Risiera di San Sabba, destinato a detenuti politici ed ebrei è l’unico campo di concentramento nell’intera area dell’Europa occidentale provvisto di forno crematorio. È il luogo dal quale si conduce contro la popolazione civile, sospettata di appoggiare il Movimento di liberazione, una vera e propria campagna di deportazione, di violenze e di uccisioni.




La Risiera fu innanzitutto una istituzione dedicata all’attività di cattura e deportazione degli ebrei e di tutti gli oppositori sia italiani che slavi. Qui si applicarono le tecniche di uccisione di massa, proprie della logica SS: abbattimento, gassazione, fucilazione, strangolamento; l’invio di deportati nei campi di sterminio in Germania. Nella Risiera furono deportate circa 20.000 persone, di cui, secondo calcoli approssimati ben 5.000 persero la vita.
Oggi l’edificio della Risiera è monumento nazionale.



Quando si parla di "foibe" ci si riferisce alla violenza di massa nei confronti di militari e di civili, in prevalenza italiani, in diverse zone della Venezia Giulia.
La prima ondata di violenze si ebbe dopo l'8 settembre 1943, in Istria, da parte di nazifascisti, contro cittadini italiani.

Nel maggio 1945 con l'occupazione della Venezia Giulia da parte dell'esercito jugoslavo, la violenza riprese con maggior vigore. Ne furono vittime migliaia di persone civili e militari. Tra di esse vi erano anche esponenti antifascisti che si opponevano al passaggio di queste terre alla Jugoslavia, venivano considerati nemici della costruzione di uno stato comunista 




Almeno 5.000 persone scomparvero nelle stragi chiamate “foibe”, dal nome delle voragini tipiche dei terreni carsici in cui spesso venivano gettati i cadaveri, anche se non tutte trovarono la morte in tale modo.






martedì 9 febbraio 2016

Francesco Hayez

Francesco Hayez


Milano è sempre Milano, la piazza del Duomo è affollata, attraverso la Galleria Vittorio Emanuele, sempre con il naso all'insù per ammirare quanto sia bella.
Piazza della Scala, davanti al Museo le Gallerie d'Italia c'è una fila lunghissima, si può accedere alla visita del museo gratuitamente, complice forse anche il maltempo e il fatto che si sta avvicinando il periodo in cui questa mostra terminerà.



Per fortuna avevo telefonato anticipatamente e prenotato l'entrata, salto la fila, l'accesso al guardaroba per le audioguide, un'occhiata al caveau della banca commerciale, e un'occhiata ai meravigliosi soffitti di questo splendido palazzo....
Hayez è un personaggio, che ha esplorato tutto l'ottocento,  ricordato per lo più per l'opera del Bacio, in realtà e uno degli artisti, che più ha rappresentato i cambiamenti che sono avvenuti negli quegli anni attraverso le arti.
Le opere che sono denominate "il bacio"  rappresentano  periodi storici  particolari,  vigeva la censura, i pittori trasmettevano i loro messaggi attraverso i colori, in un'opera  le vesti rappresentano i colori della Francia e dell'Italia, che  unite hanno sconfitto gli austriaci,  dominatori a quel tempo della nostra penisola,  nell'opera successiva,  vi sono i colori del tricolore, l'Italia Unita,  nella terza opera, il soldato non ha più la spada, un segno di pace.

le tre versioni del bacio

Questo percorso espositivo, rappresenta le fatiche, i cambiamenti e i movimenti,  che aleggiavano nell'aria di quel periodo storico, accanto a Giuseppe Verdi, e Alessandro Manzoni, costruì un'unione italiana culturale, prima ancora dei cambiamenti politici.
Nato da una famiglia povera, il 10 febbraio 1791, cresce affidato ad una sorella della madre,che ha migliori condizioni economiche, la zia è la moglie di un commerciante d' arte. Nella bottega dello zio, in mezzo a tante opere, si manifesta la sua naturale inclinazione al disegno.
I suoi educatori, sono in un primo periodo dei pittori locali,la voglia di imparare, lo porta a copiare una grande collezione di gessi statuari, contenuti nel palazzo Farsetti di Venezia, dove impiega ore ed ore di studio. Seppur giovanissimo, sembra fosse solo dodicenne, frequenta un corso di nudo alla Vecchia Accademia, impara a colorare con il maestro Lattanzio Querena, e dopo tre anni viene ammesso alla Nuova Accademia di Belle Arti.
Nel 1809 partecipa ad un concorso indetto dalla Nuova Accademia, vince il premio che gli consente, di trasferirsi a Roma per tre anni di studi.
A Roma, la sua voglia di imparare, diventa uno stile di vita, riempie molti blocchi, di schizzi di rovine antiche, e copia di tutto in particolare le opere di Raffaello.
Antonio Canova, lo prende a benvolere, ne diventa il mentore, insieme a Ingres, influenzano lo stile del giovane Hayez, i tre anni di studi sono terminati, ma avendo vinto un premio di nudo, si trattiene a Roma dove inizia a dipingere su commissione. 


Sempre nella capitale, si sposa con Vittoria Scaccia, una ragazza di famiglia ricca e borghese, grazie alle conoscenze della famiglia della sposa, ottiene diverse commesse per affrescare le ville patrizie, inizia anche a viaggiare verso il nord Italia.
A Milano,  espone le sue opere, 




 laoconte 

ed ottiene un buon successo, sono molte le commissioni, malgrado viva a Venezia,  organizza il suo studio e continua ad esporre a Milano, dove ha molte conoscenze.

autoritratto

Matilda Juva Branca 


Carolina Zucchi 


Lo stile delle sue opere, si pone a metà tra il classico rinascimentale, il neoclassico del Canova, il romanticismo,


 ma ha, anche un tocco di modernità, un insieme di soggetti moderni, ambientati in un mondo rinascimentale, si ispira anche agli eventi culturali politici, con una buona dose di patriottismo.
Da Venezia si sposta a Milano, affresca anche le sale del Palazzo Reale. Dal 1822 fino al 1838, la sua fama diventa notevole,
diventa docente a Brera dal 1823 al 1880,ottiene la nomina a Socio Corrispondente dell’Accademia delle Belle Arti di Napoli, nel 1831, viene eletto membro dell’Accademia di Vienna,  ricevuto dall’Imperatore e da Metternich nel 1836, diventa Accademico Ordinario di Brera nel 1838.
Milano, ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dell'identità nazionale, è stata la capitale morale e culturale della futura nazione,  con la sua aristocrazia e borghesia illuminate, i suoi pittori, musicisti, scrittori.

Francesco Hayez, Alessandro Manzoni,

Alessandro Manzoni

 Giuseppe verdi, erano amici, si conoscevano, si frequentavano erano accomunati dallo stesso fuoco, dagli stessi ideali.
Manzoni, persona molto schiva, è stato ritratto in modo mirabile da Hayez che, a sua volta si è ispirato ai suoi scritti per le sue opere un esempio è "Carmagnola"


 è la storia storia del capitano di ventura al servizio della Repubblica Veneta, e i «Promessi sposi», il romanticismo viene rappresentato in letteratura ma anche nella pittura.
Verdi si avvaleva della consulenza di Hayez, per la messinscena dei suoi melodrammi, un confronto tra pittura e musica ispirato spesso dagli stessi temi, come "I due Foscari", 



"I Lombardi", i "Vespri siciliani "(1822)


: titoli di opere verdiane che hanno ispirato alcuni quadri di Hayez.
Hayez, che ha eseguito moltissimi ritratti di conoscenti, 

 Rossini 

amici, e personaggi dell'epoca,

Clara Maffei 

riuscendo a far risaltare l'anima delle persone, non ha mai ritratto l'amico Giuseppe Verdi.

 Sarah Louise Strachan Ruffo di Motta e Bagnara Principessa di Sant

 la principessa Trivulzio di Belgioioso


La sensibilità di Hayez nel rappresentare i mutamenti culturali e storici, il suo modo di dipingere parecchi generi dalla pittura storica, alla mitologia, la pittura sacra,


 i ritratti, per completare con i nudi femminili, dove il corpo rappresenta la normalità fisica, trasmettendo a chi osserva una sensualità pulita, senza alcun senso di malizia.

maddalena penitente nel deserto 

maddalena penitente nel deserto

venere con due colombe 


Mazzini ha considerato Hayez, un infaticabile lavoratore e così scrisse:
"non è pagano, né cattolico, né eclettico, né materialista: è un grande pittore idealista italiano del secolo XIX. E’ il capo della scuola di Pittura Storica, che il pensiero Nazionale reclamava in Italia: l’artista più inoltrato che noi conosciamo nel sentimento dell’Ideale che è chiamato a governare tutti i lavori dell’Epoca. La sua ispirazione emana direttamente dal proprio Genio: non è settario nella sostanza; non è imitatore nella forma".



Muore il 21 dicembre 1892, tanti anni dedicati alla pittura,  ha ricevuto in cambio tanti onori, non si può pensare all'ottocento, senza pensare anche ad Hayez.