Questo articolo
l'ho preso nel web, per non dimenticare tutte le verità, la
violenza è violenza, le dittature di qualsivoglia bandiera e
colore, esercitano ed esercitavano solo imposizioni, la violenza
primaria è la negaazione della libertà.
Trieste, quando
erano gli italiani a fare pulizia etnica
Dal 2004 il 10
febbraio è il giorno del Ricordo: si commemorano le foibe, le
persecuzioni e l’esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia.
Giusto: per troppi anni ci si è dimenticati di questo dramma. La
memoria, però, ha un problema: è selettiva. Perché sorvoliamo
sulle nostre violenze sul ...
Dal
2004 il 10 febbraio è diventato il giorno del Ricordo: si
commemorano le foibe, le persecuzioni e l’esodo degli italiani di
Istria, Fiume e Dalmazia. Giusto, per troppi anni ci si è
dimenticati di questo dramma. La memoria, però, ha un problema: è
selettiva, e si ricorda quel che si vuol ricordare.
Il
susseguirsi di eventi che hanno caratterizzato l’attuale confine
orientale italiano ne
è un esempio palese: in quell’area è accaduto di tutto e di più.
Per esempio le pulizie etniche sono state varie, e ce n’è una,
così imbarazzante per l’Italia che quasi nessuno si è preso la
briga di studiarla.
La città di Trieste e tutta la regione del
Litorale (questo il nome dato dagli austroungarici a quella che per
gli italiani è la Venezia Giulia) dopo la prima guerra mondiale sono
state rivoltate come un calzino. Trieste smette di essere una città
multietnica perché la propaganda nazionalista la vuole
“italianissima” (non lo diventerà mai, motivo per cui il mito di
“Trieste italianissima” è sventolato pure ai nostri giorni da
una destra affamata di voti, per esempio da un duro e puro come il
parlamentare finiano Roberto Menia, curiosamente alleato di Mario
Monti).
Possiamo
dare un’occhiata a quanto è accaduto da quelle parti tra il 1914 e
il 1919 grazie
a un libro di Piero Purini, Metamorfosi
etniche,
(Kappa Vu). Trieste nel 1913 (anno del suo massimo sviluppo nell’era
austroungarica; il porto riprenderà solo nel Sessanta gli stessi
livelli di traffico) aveva circa 240 mila abitanti, ovvero più o
meno quanti ne ha oggi.
Dal
punto di vista etnico la città era molto, ma molto diversa da come
si presenta attualmente: agli
italiani di cittadinanza austriaca si affiancavano gli immigrati dal
regno d’Italia (Trieste era molto più ricca delle vicine regioni
italiane e ci si emigrava come si faceva in Svizzera o in Francia),
agli sloveni autoctoni si sommavano quelli provenienti dalla
Carniola, e poi ancora tedeschi, croati, una forte comunità ebraica
(alla vigilia delle leggi razziali Trieste è in termini relativi la
città più ebraica d’Italia), piccoli ma vivaci nuclei greci,
serbi, armeni, svizzeri, albanesi, boemi, polacchi turchi. Escono
giornali in quattro lingue (italiano, sloveno, tedesco e croato) e
fino al 1910 vi si stampa pure un settimanale in greco. Per i
triestini (e i trentini) la guerra scoppia nel 1914 e i soldati di
leva sono costretti a partire per il fronte (gli italiani etnici
vengono mandati prevalentemente sui Carpazi). Ma quando è chiaro che
ci sarà la guerra con l’Italia, i sudditi di Vittorio Emanuele III
fanno fagotto. Fino al 23 maggio 1915, giorno in cui vengono bloccate
le linee ferroviarie con l’Italia, se ne vanno circa in 35 mila, ma
ne restano ancora parecchi, tanto che le autorità austriache ne
rimpatrieranno via Svizzera altri 9 mila (donne, vecchi e bambini) e
ne manderanno al confino o all’internamento circa 5 mila (uomini in
età di leva). A questo punto gli italiani rimasti a Trieste sono
solo quelli che hanno in tasca il passaporto imperiale, di questi
1.047 scapperanno per arruolarsi nel Regio esercito, con 182 caduti
(tra loro gli scrittori Scipio Slataper e Carlo Stuparich).
I
coscritti triestini nelle forze armate imperiali e regie potrebbero
invece aggirarsi sui 25 mila, ma
un calcolo preciso non è mai stato fatto a causa del variare della
popolazione cittadina. Assieme a quelli che scappano per combattere
dall’altra parte del fronte, ci sono anche quelli che se ne vanno
per non impugnare le armi: anarchici, socialisti internazionalisti
(Trieste, città di cantieri navali e di fabbriche aveva una
fortissima componente rossa), pacifisti che, dopo la guerra, gli
italiani cercheranno puntigliosamente di non far tornare. Gli eventi
bellici portano a un impressionante numero di profughi, Gorizia, per
esempio passa da 28 mila ai 3.500 abitanti di quando vi entrano gli
italiani, nell’agosto 1916, e sarà del tutto sgomberata dopo
Caporetto. Trieste, che non è zona di guerra, perde in tutto circa
90 mila abitanti, arrivando ad averne, nel 1917, 150-160 mila.
Dopo
l’armistizio del 4 novembre 1918 nulla sarà mai più come
prima. Nel
1919 rientrano in città i cosiddetti “regnicoli” (ovvero gli
italiani che prima della guerra erano sudditi del regno e non
dell’impero), ma assieme a loro immigrano anche molti italiani
attratti dalle nuove opportunità che offre la città conquistata. Si
tratta di quasi 40 mila persone, solo 25.500 delle quali erano
residenti nell’area prima del 1915. Troveranno occupazione
soprattutto nel pubblico impiego, occupando i posti lasciati liberi
dal personale mandato via per motivi etnici.
L’accesa
attività irredentista di una parte (assolutamente minoritaria) della
comunità italiana, aveva
fatto sì che gli italiani fossero considerati infidi agli occhi
della autorità austriache, con punte di vero e proprio disprezzo da
parte dell’imperatrice Elisabetta o dell’erede al trono Francesco
Ferdinando. Per questo nella pubblica amministrazione si cercava di
assumere personale tra i gruppi etnici maggiormente Kaisertreu
(fedeli all’imperatore): poste, finanza, dogana, gendarmeria,
porto, ferrovie avevano in prevalenza dipendenti non italiani. Il
caso dei ferrovieri è il più eclatante: erano in totale 1926: 1694
slavi (soprattutto sloveni, ma anche croati) e 80 tedeschi e non è
detto che i 152 rimanenti fossero tutti italiani. Dopo la guerra, tra
licenziati e trasferiti non si è più nemmeno in grado di far
funzionare i treni e bisogna richiamare in fretta e furia personale
dal resto d’Italia. «L’espulsione dei ferrovieri può essere
considerata il primo momento di “bonifica etnica” ai danni della
popolazione slava della Venezia Giulia, poi sistematizzata durante il
fascismo», scrive Purini.
Il
primo gruppo etnico a essere espulso da Trieste sono i tedeschi,
circa 12 mila, terzi
per consistenza in città, dopo italiani e sloveni. Si scatena una
vera e propria caccia alle streghe contro i “non patrioti”,
arrivando alla delazione nei confronti di chi parla tedesco in
privato, mentre una rumorosa campagna di stampa chiede di sostituire
nelle scuola l’inglese al tedesco come lingua d’insegnamento. C’è
da dire che il comandante militare, il generale Carlo Petitti di
Roreto, si oppone fieramente alle discriminazioni; che avranno invece
via libera da quando Trieste smetterà di essere zona di occupazione
militare e sarà ufficialmente annessa all’Italia, nel 1920.
Vengono presi provvedimenti tesi a favorire la partenza dei tedeschi,
vengono chiusi il quotidiano “Triester Zeitung” nonché chiese,
scuole e istituzioni culturali. Nel consiglio di amministrazione
della Camera di commercio i membri tedeschi, greci, e anche qualche
italiano del posto, sono sostituiti con personale arrivato
dall’Italia.
Secondo
voci non verificabili, da Trieste nel 1919 partono 40 mila persone
(tante quante ne arrivano), ma
è impossibile capire dove si siano dirette, quanti fossero i
tedeschi e quanti gli sloveni, i croati o i serbi. Un dato certo
piccolo, ma significativo: su una classe di 40 ragazze del liceo
femminile tedesco, ne resta a Trieste una sola. Negli anni Venti la
comunità tedesca è ridotta a stento a mille unità.
Se
ripulire la città dai tedeschi era relativamente semplice, ben
diverse stanno le cose con la più numerosa comunità slava. La
chiusura del liceo tedesco provoca anche un esodo di studenti sloveni
e croati: almeno un terzo degli studenti erano di lingua slava perché
a Trieste non esisteva un liceo sloveno, ma solo scuole tecniche.
Si
colpiscono con l’internamento le personalità più in vista:
sacerdoti (colonna
di tutti i nazionalismi), insegnanti, professionisti; in tutto sono
500 persone, non moltissime, ma costituiscono un esempio e
determinano un decisivo incentivo alla partenza per gli appartenenti
al medesimo gruppo etnico.
Nel marzo del 1919 gli emigrati dalla
Venezia Giulia – quindi non soltanto da Trieste – alla Jugoslavia
assommano a 30-40 mila. Nella sola Lubiana un campo ospita 5 mila
profughi provenienti dal Litorale.
Di
pari passo con le espulsioni, procede l’italianizzazione del
territorio: Roma
manda nella Venezia Giulia 47 mila tra militari, poliziotti e agenti
di custodia, 9 mila circa solo a Trieste. Tanto per fare un
raffronto, Vienna teneva nella medesima area 25 mila persone in
divisa, ma 17 mila erano in servizio a Pola, la principale base della
Marina da guerra austroungarica. I 40 mila neo arrivati dall’Italia
di cui si è parlato sopra, si sommano ai 47 mila militari.
L’immigrazione economica si ferma negli anni Venti a causa della
devastante crisi che colpisce Trieste: la città si ritrova a essere
declassata da unico porto della parte austriaca dell’impero
(l’Ungheria aveva come riferimento Fiume) a porto del tutto
marginale del regno d’Italia.
Il
fascismo, ovviamente, porterà al parossismo l’opera di
italianizzazione: intere
parti di Trieste saranno demolite e ricostruite in stile littorio, si
procede alla snazionalizzazione dei toponimi (Opicina diventa
Poggioreale del Carso, tanto per dirne una) e dei cognomi. Si calcola
che tra il 1919 e il 1945 siano stati italianizzati circa mezzo
milione di cognomi della Venezia Giulia, 100 mila dei quali a
Trieste. Italianizzazione che avviene, ovviamente, all’italiana: se
eri ricco e potente, nessuno ti toccava. Gli armatori Cosulich si
tengono il loro bel cognome lussignano (anche se italianizzato nella
grafia, altrimenti sarebbe Kozulić).
Le
partenze di sloveni e croati etnici vengono incentivate dalle
sistematiche violenze squadriste, culminate
nell’incendio dell’hotel Balkan, sede delle istituzioni culturali
slovene triestine, il 13 luglio 1920. Il censimento del 1921
fotografa nella Venezia Giulia una situazione radicalmente diversa
rispetto a quella del 1911: gli slavi passano da 466.730 a 349.206,
gli italiani da 354.908 a 467.308.
Con
l’ascesa del fascismo la violenza si intensifica e si parla
apertamente di «bonifica etnica», termine
che rispecchia nella forma e nella sostanza la «pulizia etnica» di
anni più recenti. E proprio quando si parla della pulizia etnica
attuata da altri, non sarebbe male guardare anche a quel che è
successo in casa propria.