LA SETA
E' cosa conosciuta che Como e
la sua provincia abbiano sempre vissuto di seta. Io stessa da ragazzina ho imparato il lavoro dell'orditrice presso una
tessitura del mio paese, è un lavoro da certosini, dove il filo di seta arriva
già finito, tinto, e trattato, pronto per essere lavorato, dall’orditoio poi passa al telaio dove diventa tessuto, per cravatte, foulards, o seta per
abiti.
Licia invece, mi racconta
come nel suo casale la sua famiglia coltivasse i bachi da seta.
La mia nonnina ( io la chiamo
così) mi dice: adesso non si coltiva più niente hanno strappato tutti i miei "moroni".... le piante di
gelso con le cui foglie si alimentavano i bachi da seta.
Ai primi di maggio, nel
pomeriggio dopo la processione, il curato benediceva in cotta e stola i cartoni
di semente che la nonna portava alla balaustra dell'altare maggiore, erano
foglie di gelso. si benediceva poi, la stampa del SS.Crocifisso dell'Annunciata
di Como, una stampa non più grande della pagina di un vecchio messale che
avvolta in un candido mantilo, conteneva qualche oncia di roba: erano minutissimi vermi, sottili come la punta di un ago,
neri e fini come i semi del tabacco.
Le donne anziane su quel
brulicame vegliavano: attente al colore,
al moto,all'odore e traevano pronostici
sul futuro raccolto , con trepida speranza ....
Per permettere a questi vermi
di diventare sani e produttori di bava, che poi diventava
seta, la nonna, se li metteva in seno , e li trattava come una reliquia,
si attardava a lasciare il letto per le
diverse mattine che seguivano, perchè il tepore del corpo serviva per far schiudere le larve .
Era la speranza che sosteneva
Licia e la sua famiglia, nei mesi successivi.
Le larve venivano poi disposte
in locali appositi e poste su dei tavoli che non erano veri e
propri tavoli, i bachi che si
schiudevano diventavano filugelli, produttori di
filo, detti " cavalieri"
Era un impegno notevole, la "bigatteria" così venivano
chiamate le stanze, doveva essere ben chiusa agli spifferi di aria e agli
sbalzi di temperatura per cui si aprivano le finestre solo al bel tempo e si
chiudevano tutte le finestre e tutti i buchi nei muri durante i temporali
freddi, e a volte lividi di maggio.
Il pericolo più grosso era
che i bruchi si ammalassero di calcino
(che Dio ce ne liberi) o di giallume, perchè morivano a migliaia.
(Giallume.
Le larve si gonfiavano diventando quasi trasparenti, la pelle così fine si
screpolava procurando la morte della larva)
(Calcino.
Eccesso di mineralizzazione delle larve, che in un primo momento si ricoprivano
di striature rosse, di seguito sbiancavano indurendo, così che le larve non
riuscendo più a muoversi morivano diventando rigide come gessetti da disegno)
La nonna e la mamma e le zie
di Licia, coglievano il gelso e lo
tritavano fine come
polvere, che veniva sfarinata sulla muta
dei cavalieri piano piano, quasi come un vapore
verde e leggero, le cimette giovani del gelso fresche e umide come nebbia, nutrivano quei bruchi
che in una quindicina di giorni, un mese
al massimo, sarebbero diventati tanto grassi, da occupare trenta quaranta graticci di canne, che venivano collocati
uno sull'altro alle pareti, in doppia fila in uno
stanzone grande come il refettorio di una caserma.
I "Cavalieri" la
facevano da padrone sempre più ghiotti, esigenti, insaziabili, perchè dopo la
seconda o più ancora la terza dormita crescevano a vista d'occhio e divorando a tutto spiano, giorno e notte, le foglie di Gelso. Per mantenere la temperatura costante nei giorni
piovosi, Licia, con le sorelle e i
cugini dovevano far provvista di legna per il focolare e ventilare l'aria con grandi drappi, oppure controllare
le finestre nei giorni di sole per evitare colpi d'aria......
Licia racconta di un odore nauseabondo, cha a volte lo
stomaco ne risenntiva, ma se quel raccolto fosse stato
poficuo avrebbero avuto un anno buono a
seguire.
Le donne dormivano poche ore
non avevano più tempo nemmeno per sistemarsi, scarmigliate e spettinate come
zingare, accudivano queste larve instancabilmente dando loro ora, foglie intere
non più tritate.
La foglia intera veniva colta
dagli uomini e dai ragazzi nei giorni di sole e messa in sacchi di iuta
chiamati sacchi di moggia aperti con
cerchi di legno oppure durante i giorni di pioggia tagliavano i rami che
mettevano sotto i portici ad asciugare.....
Negli ultimi, giorni nello stanzone, un brusio ingordo
riempiva il silenzio, i bruchi continuavano a mangiare senza tregua nemmeno di notte, la nonna, chiamata "
reggiura" era la prima ad alzarsi e l'ultima a coricarsi e quante volte interrompeva il
suo sonno, una corsetta al buio, per vedere, regolare, e pulire sotto a quei
mangioni, gettare una manata di foglia
in più ai più voraci a diradare i grovigli, a spiare se ne cadevano, o se ne
morivano..
Quando non mangiavano più,
sui graticci di canne si rizzava un finto bosco, erano mazzi di ravizzone, o cespugli di
scoparia posti li per far si che tra gli steli si arrampicassero lenti,
a decine di migliaia i cavalieri: cerniti, puliti,
bianchi lucenti, oscillando lievemente, dalle loro mascelle che per tutto quel periodo
avevano mangiato foglie di Gelso ora
usciva un quasi invisibile filo che si
allungava, si sdoppiava, si
moltiplicava,
per metri, centinaia di metri.
Il bruco si includeva in
questo velo leggero,che diventava sempre più fitto e dorato, in poco tempo diventava duro e compatto, la
vita del baco si
spegneva, mentre dai rami mille e mille caldi
bozzoli , soffici come piccolissime balene, preziosi come l'oro,
pendevano nella penombra di questo stanzone, Licia ha visto
piangere di gioia le donne della sua
famiglia. Ora si doveva
procedere al raccolto, ed’era un giorno di festa e di canti al casale del Ronco, bisognava avere mani decise ma delicate, le gallette
stavano tenacemente attaccate ai rami con un
un filo bianco che le avvolgeva
si doveva star attenti a rompere solo quel filo, a non schiacciare il bozzolo, era un lieve sdrucio di seta lacerata, poi
questi fragili bozzoli, di una
lucentezza meravigliosa, cadevano nei
cesti che venivano ricoperti con una tela bianca casalinga, per poi venire caricati
sui carri, e portati alla filanda, i Buoi
trainavano il carro con passo lento e deciso, davanti al carro il nonno col papà di Licia, seguiti da tutta la famiglia vestita a festa, questa giornata
era il rendiconto, la posta più alta di tutta l'annata....
La nonna, la
"reggiura" prendeva intanto un'altro sentiero, si recava in
chiesa, davanti all'altare
della madonna , donava un involtino con una decima delle gallette, era
seta per la madonna che aveva benedetto i cavalieri,...................
Un dono
in bozzoli portato alla Madonna da ogni contadino, dice la tradizione:
Porta bene un manto di seta in paradiso.
immagini web
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